Intervista all’autore: Nicola Brami

Ciao e bentornati al momento dell’intervista

Il protagonista di oggi è  Nicola Brami, autore del libro “Tutti se ne vanno” della casa editrice “La Torre dei Venti”.

Per leggere la mia recensione potete cliccare qui.

Biografia

A Nicola piace scrivere, questo s’era capito. L’ha fatto per diversi anni, per la pubblicità, per il web e per un paio di quotidiani locali. Anche la sera, dopo il lavoro: storie, faccende inventate, bugie insomma. Gli piace perché può giocare a vivere esistenze che non sono la sua. Per esempio, accoglie con disappunto il non poter essere, né ora né mai, una ragazzina tredicenne, così ci scrive un racconto, e il racconto gli permette di fare finta, almeno per un po’.

Quando non scrive, suona punk rock con gli amici di una vita, o produce musica elettronica particolarmente rilassante, forse per compensare, che gli anni vanno su. Tutta roba essenziale, come molta letteratura che gli piace: Vuoi stare zitta, per favore?, Panino al prosciutto, Jim entra nel campo da basket, cose così. Lui guarda all’America con affetto e sospetto, e forse per questo ama gli autori americani che guardano all’America con affetto e sospetto. Poi c’è la Bologna di Tondelli e Pazienza dove, per dirla con Dalla, “l’America è lontana, dall’altra parte della luna”, e dove lui ha studiato, anche se molto più tardi.

Nicola viaggia molto, e lo sa che è una fortuna. Prima di tornare in Italia, vive a Dublino per sei anni, e visita spesso San Francisco e il Giappone, dove si innamora di tutto.

Nella verde Irlanda lui è al verde, così vive per sei mesi in un ostello, in camerata da sedici, e conosce molte persone che, come lui, stanno vivendo in un periodo di incertezza, di ripensamento: casanova ventenni da Melbourne, padri di famiglia peruviani che cercano lavoro per mandare soldi a casa, artisti spagnoli, musicisti irlandesi, attrici francesi, svitati argentini che si credono Hemingway.

Nicola è attratto dalle loro storie perché è attratto dalla precarietà, dall’indeterminazione che precede il consolidarsi di una realtà. Così ne scrive qualcuna, romanza la propria e crea Tutti se ne vanno, il suo libro d’esordio. Poi, fedele al titolo, finisce per andarsene pure lui.

Intervista

1 – Come è nata l’idea di scrivere il tuo libro “Tutti se ne vanno”?

Quando mi sono recato in Irlanda pensavo di trascorrere un mese in ostello – giusto il tempo di trovare una casa e un lavoro – prima di tornare a una qualche parvenza di ciò che consideravo normalità. Alla fine, in ostello ci ho vissuto sei mesi, in camerate da sedici.

Qui ho finito inevitabilmente per conoscere persone singolari e, per me che ho sempre trovato molto interessanti le fasi di passaggio, affascinanti: dal ventenne argentino che si crede Jack Kerouac allo spagnolo in crisi da mancanza di psicofarmaci, dal brasiliano festaiolo alla francese che studia arte e teologia. Ho così pensato di scrivere le loro storie, romanzandole, insieme alla mia. Dopo circa un anno, ho avuto la fortuna di incontrare prima un agente letterario e poi una casa editrice che hanno creduto in ciò che ho scritto, e con i quali mi trovo benissimo

2 – Mi descriveresti il tuo libro con tre aggettivi?

Domanda difficile. E ne ho pure già usato uno! Scherzi a parte, direi: sincero, sentito, intimo.

3 – Un pregio e un difetto di Davide?

Mi pare un pregio il fatto che si impegni per capire le storie altrui e la propria, esercitando l’empatia e astenendosi, per quanto possibile, da giudizi e pregiudizi. Il difetto, probabilmente, è la sua tendenza a farsi trasportare dagli eventi invece di guidarli, o almeno di provare a indirizzarli.

4 – Quanto ci hai messo per scriverlo e come ti sei organizzato?

Potrei dire che ci ho messo due anni e mezzo, o sei mesi, ed entrambe le risposte sarebbero piuttosto vere. Ho scritto i primi capitoli  tempo fa, per poi accantonare il progetto per un paio di anni. Infine, negli ultimi 6 mesi, ho scritto l’85% del libro, o anche di più, se si tiene conto della riscrittura quasi integrale che ho apportato al materiale che già avevo.

Ogni giorno, dopo il lavoro, mi chiudevo nello Starbucks davanti a casa, a Dublino, per il tempo necessario a scrivere le mie mille parole quotidiane, ovvero circa due ore, e di bermi un tè o due. Si trattava – e immagino si tratti ancora – di uno dei Starbucks più scalcinati che ho mai visto, ben lontano dall’idea glamour che spesso si ha di questa catena, ma io ci stavo bene e il personale era gentile.

5 – Quali sensazioni ed emozioni hai provato mentre lo scrivevi?

Timore: non mi stavo forse esponendo troppo? Non stavo commettendo il primo errore di tanti scrittori in erba, ovvero credere, a torto, che la propria esperienza potesse risultare interessante per gli altri?  Non stavo forse perdendo tempo, molto tempo, visto che non avevo alcuna idea se quanto stavo scrivendo avrebbe trovato un editore?

Eccitazione, quando le parole si incastravano come desideravo. Ma anche una nostalgia gioiosa quando scrivevo di scene che avevo vissuto davvero e, a volte, quando l’ispirazione tardava ad arrivare, un senso di costrizione autoimposta: mi obbligavo a raggiungere la mia quota giornaliera di parole anche quando ero stanco o quando, semplicemente, la scrittura usciva a fatica e male. Per il resto, è stato un gran piacere e, come dico nei ringraziamenti del libro, quando ho finito la prima stesura, su un aereo, mi è scesa una lacrima.

6 – Puoi anticiparci se hai in progetto un altro libro?

Attualmente sto scrivendo due romanzi: uno è quello che considero, al momento, il mio progetto principale, e che ha il titolo molto provvisorio di Doppio misto. Quando mi blocco con quello, come a volte capita, proseguo con l’altro, che sto invece approcciando come una sorta di brainstorming continuo: a differenza del primo, non pianifico nulla, e faccio avanzare la trama come mi viene al momento.

Sono entrambi molto diversi da Tutti se ne vanno, sia nelle atmosfere che nello stile: nel primo mi pare di rinvenire influenze di entrambi i Murakami (Haruki e Ryu), Lynch e Pirandello, nomi che solo a menzionarli mi tremano le gambe. Il secondo, chi lo sa. Potrebbe essere di 50 o 450 pagine. Ogni giorno è una sorpresa anche per me, e mi è utile per mantenere vivo l’entusiasmo della scrittura.

7 – Come ti descriveresti con tre aggettivi?

Quieto, riflessivo, imbranato.

8 – Ci puoi raccontare, se c’è, un aneddoto sul tuo libro?

Mi pare non esista un aneddoto particolare legato al libro. Una particolarità credo possa essere il fatto che alcune tra le scene più inverosimili sono accadute davvero mentre, al contrario, altre più quotidiane sono state romanzate. Parlando con la gente che l’ha letto, mi sono accorto che quasi sempre sbagliano nell’indicare quali siano i fatti realmente avvenuti e quale, invece, siano le aggiunte utili a chiudere tutti gli archi narrativi.

9 – Quali sono i tuoi autori e libri preferiti: puoi citarmene un paio?

Mi è difficile rispondere, avendo gusti piuttosto vari. Per la stesura del romanzo mi sono ispirato alla struttura episodica dei primi romanzi di Bukowski – Donne su tutti – che è sicuramente un autore che ho amato molto, anche al netto di tutte le schifezze che ha scritto in seguito. Altri nomi che potrei citare, ma che non credo siano necessariamente visibili nel libro, sono Carver, Yates, Yoshida Shūichi, Tondelli e Jim Carroll.

10 – Infine una curiosità: qual è stato l’ultimo libro che hai comprato e/o letto?

Attualmente sto leggendo Cecità – che considererei un capolavoro anche se terminasse così, improvvisamente, a metà di una frase: una prosa incredibile – e Mayflies di Andrew O’Hagan, accurata e toccante descrizione di cosa ha significato essere giovani, punk e scozzesi nel 1986.

Grazie di aver risposto alle mie domande

Alla prossima

Gabrio

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